Michele Federico, sociologo, ci scrive
Caro Andrea,
Come ti dicevo, nel periodo che mi sono avvicinato al mondo della cooperazione ho scoperto con l’amarezza nel cuore che ci sono tre grosse categorie:
- cooperazione governativa, quella che esporta progetti con retorica orientata agli stakeholders ma nella prassi con fare colonialista, dove i grandi capitali vengono solitamente usati per l’arricchimento personale di pochi o peggio per spostare consensi e appoggiare grandi lobbies (petrolio, farmaceutica, ecc.);
2. piccole ong, per la maggior parte controllate dal “potere cattolico”: realizzano piccoli progetti nelle intenzioni meritevoli ma nella pratica catalogabili nel bieco evangelismo di antica memoria; - grandi ong, che a loro volta si suddividono in ong “serie” e ong “simil aziende” orientate al profitto. Emergency è un esempio delle prime, alcune fette dell’oxfam (quelle che vengono direttamente finanziate via wto o fao o simili) un esempio delle seconde.
Per questo mi sono stupito quando hai presentato il Progetto Susan, perché è una quarta categoria: ha tutti i pregi dei gas (gruppi di acquisto solidale) come la raccolta preventiva di conoscenza, l’uso razionale delle risorse, la trasparenza assoluta, ecc. e nessuno dei difetti del controllo governativo e/o religioso.
Secondo me il modello Progetto Susan dovrebbe essere il termine di riferimento per qualsiasi progetto di cooperazione, semplicemente perché è quello più coerente con la forma della società iper-complessa che sta arrivando.
Sempre più persone si stanno accorgendo di questo. È vero, sono sparpagliate ed è per questo che trovo altrettanto sensato il lavoro che stai/state facendo di cercare di mettervi in rete con chi condivide il nuovo approccio.
Baudrillard (un sociologo famoso per aver scritto molte cose contorte a volte solo a scopo di provocazione) disse che la cooperazione internazionale messa in piedi dal mondo occidentale nei confronti di ciò che ha etichettato “terzo mondo” altro non è che un colossale meccanismo per tamponare la coscienza marcia di una civiltà che ha depredato per secoli il resto del pianeta.
Anche se Baudrillard non mi è mai piaciuto come sociologo, spesso uso anche questa dicotomia per giudicare i progetti di cooperazione: da una parte tutti quelli “buonisti” che operano nell’intento di esportare civilizzazione per un “senso di colpa collettivo” (con il paradossale effetto di mantenere e riprodurre la distinzione primo/terzo mondo); dall’altra quelli che cercano di mettere in moto sul posto dei processi di cambiamento lasciando autonomia alla realtà locale.
Tutti i progetti su base religiosa che ho avuto modo di conoscere cascano nella prima parte. E piacciono anche ai giornalisti, proprio per la ragione proposta da Baudrillard: la gente è contenta di leggerli perché chetano temporaneamente la sensazione di ingiustizia civile in cui la società occidentale affonda le radici.
In questo contesto, il Progetto Susan ha meno “appeal”, perché è fuori dalla grande retorica religiosa della “salvezza”.
Questa però, a mio giudizio, sarà anche la sua grande forza sul lungo periodo. Siamo solo agli inizi di una nuova civiltà: non riesco a non dar ragione a Jeremy Rifkin. Anche se quindi sono sempre incazzato quando vedo che a livello locale viene dato risalto soprattutto ai progetti di matrice religiosa, mi consolo pensando che le alternative stanno crescendo e cominciano a mettersi in rete.
29 dicembre 2011
Michele Federico (sociologo twitter.com/cinemich)