Michele Federico, sociologo, ci scrive

Gen 10, 2016 | Cooperazione internazionale e volontariato, Dicono di noi

Caro Andrea,

Come ti dicevo, nel periodo che mi sono avvicinato al mondo della cooperazione ho scoperto con l’amarezza nel cuore che ci sono tre grosse categorie:

  1. cooperazione governativa, quella che esporta progetti con retorica orientata agli stakeholders ma nella prassi con fare colonialista, dove i grandi capitali vengono solitamente usati per l’arricchimento personale di pochi o peggio per spostare consensi e appoggiare grandi lobbies (petrolio, farmaceutica, ecc.);
    2. piccole ong, per la maggior parte controllate dal “potere cattolico”: realizzano piccoli progetti nelle intenzioni meritevoli ma nella pratica catalogabili nel bieco evangelismo di antica memoria;
  2. grandi ong, che a loro volta si suddividono in ong “serie” e ong “simil aziende” orientate al profitto. Emergency è un esempio delle prime, alcune fette dell’oxfam (quelle che vengono direttamente finanziate via wto o fao o simili) un esempio delle seconde.

Per questo mi sono stupito quando hai presentato il Progetto Susan, perché è una quarta categoria: ha tutti i pregi dei gas (gruppi di acquisto solidale) come la raccolta preventiva di conoscenza, l’uso razionale delle risorse, la trasparenza assoluta, ecc. e nessuno dei difetti del controllo governativo e/o religioso.
Secondo me il modello Progetto Susan dovrebbe essere il termine di riferimento per qualsiasi progetto di cooperazione, semplicemente perché è quello più coerente con la forma della società iper-complessa che sta arrivando.

Sempre più persone si stanno accorgendo di questo. È vero, sono sparpagliate ed è per questo che trovo altrettanto sensato il lavoro che stai/state facendo di cercare di mettervi in rete con chi condivide il nuovo approccio.

Baudrillard (un sociologo famoso per aver scritto molte cose contorte a volte solo a scopo di provocazione) disse che la cooperazione internazionale messa in piedi dal mondo occidentale nei confronti di ciò che ha etichettato “terzo mondo” altro non è che un colossale meccanismo per tamponare la coscienza marcia di una civiltà che ha depredato per secoli il resto del pianeta.

Anche se Baudrillard non mi è mai piaciuto come sociologo, spesso uso anche questa dicotomia per giudicare i progetti di cooperazione: da una parte tutti quelli “buonisti” che operano nell’intento di esportare civilizzazione per un “senso di colpa collettivo” (con il paradossale effetto di mantenere e riprodurre la distinzione primo/terzo mondo); dall’altra quelli che cercano di mettere in moto sul posto dei processi di cambiamento lasciando autonomia alla realtà locale.

Tutti i progetti su base religiosa che ho avuto modo di conoscere cascano nella prima parte. E piacciono anche ai giornalisti, proprio per la ragione proposta da Baudrillard: la gente è contenta di leggerli perché chetano temporaneamente la sensazione di ingiustizia civile in cui la società occidentale affonda le radici.

In questo contesto, il Progetto Susan ha meno “appeal”, perché è fuori dalla grande retorica religiosa della “salvezza”.

Questa però, a mio giudizio, sarà anche la sua grande forza sul lungo periodo. Siamo solo agli inizi di una nuova civiltà: non riesco a non dar ragione a Jeremy Rifkin. Anche se quindi sono sempre incazzato quando vedo che a livello locale viene dato risalto soprattutto ai progetti di matrice religiosa, mi consolo pensando che le alternative stanno crescendo e cominciano a mettersi in rete.

29 dicembre 2011
Michele Federico (sociologo twitter.com/cinemich)

 

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